Il Restauro ottocentesco della Pieve del SS. Salvatore di Castellina in Chianti.
La mano del noto architetto colligiano Giovanni Pacini
La Pieve del SS. Salvatore di Castellina in Chianti fu edificata nella seconda metà del Quattrocento ed eredita il ruolo della più antica chiesa di San Salvatore all’arbiola, verosimilmente collocata non molto distante dall’attuale centro cittadino, dove appunto nasce il fiume Arbia, area che tutt’oggi conserva il significativo toponimo di “Monistero”. Originariamente la chiesa era una suffraganea del piviere di San Leonino in Conio, posta sotto la giurisdizione ecclesiastica della Diocesi di Fiesole fino al 1592, quando fu istituita la Diocesi di Colle Val d’Elsa.
La pieve del SS. Salvatore raggiunse nei secoli una grande importanza, tanto da meritare la facoltosa attenzione di illustri famiglie fiorentine (Ugolini, Squarcialupi, Bianciardi, Landi, etc.) e il continuo sopporto materiale del popolo. Subì diverse ristrutturazioni, interventi necessari e mirati a restaurarla o ad ampliarla. Vi si edificarono numerose cappellanie, sepolture private, altari e compagnie religiose che contribuirono a magnificare il tempio con decorazioni architettoniche, raffinate suppellettili e pregevoli opere d’arte sacra. Il presente intervento, tuttavia, non intende narrare la genesi di questo punto nevralgico della vita religiosa e sociale del Chianti ma porre l’attenzione sulle ultime eccezionali ristrutturazioni Ottocentesche che, come vedremo, furono realizzate per mano di autorevoli personalità ben affermate in tutta la Toscana.
L’Archivio parrocchiale conserva numerosi documenti a proposito, da questi apprendiamo che furono due le ristrutturazioni più importanti eseguiti nel XIX secolo. Nel 1814 a cura del preposto Dionisio Guidi, e nel 1864 per opera del pievano Vincenzo Mangani. Numerosissime le modifiche apportate alla fisionomia del tempio. Basti pensare che nella prima ristrutturazione del 1814, vi si demolivano alcuni altari minori collocati nelle navate laterali mentre altri – per esempio quello che ospitava il quattrocentesco affresco della Madonna del Latte, opera della bottega di Bicci di Lorenzo – furono spostati e tutelati con maggiori accorgimenti. Si rifece la Cantorìa che ospitava l’organo, eredità di un antico strumento cinquecentesco trasferito alla Pieve di Sant’Agnese. La Tribuna fu rialzata con volta a cupola. Nel 1864, invece, gli accorgimenti furono più conservativi (anche se non mancarono interventi estetici, come la dipintura della facciata ad imitazione del colore del marmo) oltre a prevedere tutta una serie di nuove decorazioni dentro e fuori il tempio. Ma si ponga attenzione sulla prima ristrutturazione ottocentesca, a cura di d. Dionisio Guidi. Stando alle fonti documentarie, tra l’altro riprese da Luigi Biadi per il suo compendio storico su Castellina, l’intervento fu promosso dal proposto Guidi insieme a un noto concittadino, il Sig. Filippo Bianciardi, all’epoca proprietario anche di un negozio a Firenze.
Ma chi concepì la ristrutturazione? Chi permise di ampliare l’edificio donandoli “nobilem formam”? Non sono molti, oggi, i documenti che esplicitano tale informazione ma possiamo affermare con sicurezza che fu il noto architetto colligiano Giovanni Pacini (Colle Val d’Elsa 1778 – 1838). Fino ad ora non si è data molta importanza, ma proprio per questo è bene ricordare, se pur a grandi linee, l’eccelsa personalità del Pacini. Fu professore dell’Accademia di Belle Arti di Firenze e ricoprì incarichi notevoli nell’apparato statale del Granducato di Toscana. Come architetto dello Scrittoio delle Regie Fabbriche lavorò a Piombino e all’isola d’Elba, tra l’altro proprio nel periodo (1814-1817) in cui si occupò della nostra pieve castellinese. A Livorno, come architetto comunitativo, restaurò il Lazzaretto di San Jacopo e l’ospedale del Lazzaretto di San Leopoldo. Per intenderci, strutture settecentesche che insistevano dove oggi sorge la prestigiosa Accademia Navale. Sempre a Livorno fu chiamato per occuparsi del Palazzo Reale, il porto, la Fortezza Vecchia e Nuova. Supervisionò la manutenzione dei Forti di Bibbiena e di Castagneto Carducci (1826) e nel 1833 la comunità di Lucca richiese un suo parere sul lavoro di Lorenzo Nottolini riguardante il celebre acquedotto. Insieme a Pasquale Poccianti ricostruì la facciata della Cattedrale di Pontremoli a Bibbiena. Di eguale rilevanza le opere realizzate a Firenze negli anni Trenta dell’Ottocento, dove restaurò Palazzo Ridolfi in via Maggio e il Liceo di Candeli in Borgo Pinti. Effettuò anche la trasformazione dell’antico Teatro Mediceo degli Uffizi in Archivio e Guardaroba generale.
Come si vede, un professionista chiarissimo degno d’ogni rispetto.
Ma come andò a Castellina? Che rapporto instaurò il preposto Guidi con il noto architetto? Cosa realizzò esattamente per la pieve?
Dalle testimonianze documentarie presenti nell’archivio parrocchiale risultano ben poche tracce, probabilmente molte meno rispetto alla mole di documenti che dovette consultare il Biadi a metà Ottocento.
Poche ma buone, per fortuna. Infatti se per i lavori generali del tempio non si conservano disegni o perizie, vi è un’interessantissima lettera di d. Guidi spedita al suddetto parrocchiano Filippo Bianciardi. Un testo esteso, ben meditato e abbastanza “colorito”, dal quale apprendiamo di alcuni interventi relativi a grandissime travi e assi di legno, da utilizzarsi proprio per le ristrutturazioni. Prima di conoscere le parole di d. Guidi, si preferisce però ricordare che l’arch. Giovanni Pacini lavorò per la pieve castellinese già nel 1807, quando si occupò di risistemare la scalinata che porta al sagrato della chiesa. Una spesa preventivata in ben 643 Lire toscane. Per la prima volta, si pubblicano le tavole – le uniche pervenuteci – della perizia redatta dal Pacini
Dalla Relazione che accompagna i disegni, si intuisce anche lo spirito e il carattere del celebre architetto. Per questo lavoro esordisce dicendo:
L’attuale Gradinata che mette sul Cimitero della di Lei Chiesa, costruita fin dalla sua origine, per dir così, dall’azzardo e dall’ignoranza; logorata e mal condotta dall’ingiurie de’ tempi; ed in ultimo mutilata nella ricostruzione della nuova strada, offre agli sguardi dello Spettatore una macerie di pietre indigeste, che deturpano quel luogo, e pongono a cimento chiunque l’ascende. […] Fra i diversi pensieri che mi son comparsi d’avanti, meritan certamente la prelazione quelli che si vedono delineati nell’annessa Tavola di Corredo[…] Io non mi occupo della descrizione di dette Gradinate, per la ragione di non offender di troppo la Loro capacità, quando la semplice vista del Disegno serve per far capire a bastanza.
I Parapetti che si osservano nel Disegno, né punti più pericolosi del Cimitero a scanso di qualche disgrazia, mi pare che somministrino un comodo troppo bello, per invitare i Men – Devoti a trattanercisi a crocchio, anche in tempo delle sacre Funzioni, con scandalo della Classe più Religiosa: quando credessero di dover allontanare un tal disordine, si potrebbero sostituire ai medesimi dei Ferri a foggia di Ringhiera […].
Colle, 14 Luglio 1807
Giovanni Pacini.
I lavori, dunque, principiarono come minimo dal 1807 per concludersi nel 1814, come dimostrava un’iscrizione posta in chiesa dallo stesso preposto Guidi e riportata dal Biadi nel suo Compendio.
Dalla suddetta Relazione si evince certamente l’abilità del Pacini ma anche una scarsa “delicatezza”, con la quale si disprezza, senza mezzi termini, l’antica gradinata definendola come costruita dall’azzardo e dall’ignoranza. Tuttavia le idee nonché i disegni dell’autorevole architetto colligiano sono condivisibili e di chiaro valore… anche se, in realtà, i rapporti intessuti con il proposto Guidi non furono proprio idilliaci. Nella lettera inviata al Sig. Filippo Bianciardi, d. Guidi esplicita, quasi sfogandosi, la pessima stima nutrita verso il Pacini.
Di questa lunga lettera, si riportano i passaggi più significativi, dai quali emerge chiaramente il tenore dei rapporti tra le parti nonché alcune interessanti informazioni sui lavori da farsi per la ristrutturazione della chiesa e relativo – pessimo – stato finanziario con cui sostenerla.
Castellina 26 marzo 1812
Amico Carissimo,
Io credo che il Pacini mi voglia fare impazzare, vuole tutte le cose a suo modo, ne sà indursi a regolarsi con i suoi maledetti disegni secondo le circostanze; fa dell’ordinazioni impietose e impossibili ad’eseguirsi; vuole delle travi della larghezza e dell’altezza […] impossibile il poter trovarsi qui legname di tal grossezza e lunghezza; ed esso torna a replicare che procuri di trovarlo […] sono estremamente pentito di essermi impacciato con esso, avendo ben conosciuto che è un capo pieno di ostinazione, e di cocciutaggine, che pretende di parlare da Alto, e che i suoi disegni vadino al pari con i decreti divini, che non ammettono variazione; con la sua lentezza e con le sue ordinazioni cocciute mi ha fatto marcire un’ala di fegato.
Si è ostinato nella maledettissima ordinazione degli sconsagrati Rosoni di gesso, spesa inutile, capricciosa, e niente a proposito; mi domandò se gli doveva pagar lui, oppure qualche altro costì di mia commissione; gli risposi che avendogli lui ordinati gli avesse anche pagati; e perché gli aggiunsi celiando [scherzando], che sarebbe stato rimborsato a urli di lupo, mi ha replicato in una maniera in cui l’amicizia non ci ha posto; per il ché vi prego a fargli pagar Voi, e se occorre, che costì dobbiate rimettere quanto occorrerà sborsare per i detti sconsagratissimi Rosoni, che il Diavolo se li porti, avvisatemelo e per la prima occasione spedirò l’occorrente.
Al Pacini non gli scrivo, se voi credete di abboccarvici per contestargli l’impossibilità di poter trovar qui il legname […] che pretende […], fatelo. Incomincio a pentirmi di cuore di essermi cimentato in questo dispendiosissimo lavoro per cui prevedo che vado a rovinarmi nelle barbe, e a questo quel corbellone del Pacini non ci pensa, e purché siano eseguiti i suoi immutabili Disegni. La Quaresima è finita, e perché non riprincipino le linguacce a lacerarmi, dovrei, terminata la Festa, dar principio al Lavoro: ma come? Mi ha detto il Mer che Geppaccio Fontani mi contesta la maggior somma su cui contavo, e che riguarda il legato Landi; qual somma sapete dovrei ritirarla dalla Piazza, a cui fu consegnata in deposito, e ancorché non me la contestasse, essendo fallito il Mercante a cui avevamo venduti i maiali, e perciò essendoci restati allo scoperto di qualche migliaio […]. Il Faellino, che deve pagarmi, è fallito affatto, mi disse ch eoggi ad istanza di alcuni creditori di Siena gli è stato inventariato quanto ha in casa, considerate dunque se sarà in grado di pagarmi tal somma. L’Antonelli è debitore di L. 25, ma ben sapete quanto è tribolato. Pietro piange, e non sa come farsi a andare avanti. L’abate sapete come pensa, “e se vi è da sperare che si svenga”: Dunque tutto l’assegnamento su cui posso contare consiste in quel poco di grano, che ho da vendere e in quella sommarella che avete Voi: ma a che basterà? A principiare. […] il Pacini fa di tutto per angustiarmi più che può senza alcun riguardo, e senza voler battere la strada dei compensi. Vi ripeto, che se credete bene di andarlo a trovare, e di fare con esso una sessioncella, La facciate pure, ma state con l’occhio alla penna per non lasciarvi infinocchiare dalle sue ciarle imponenti, diversamente contribuirete al vostro danno perché il vostro arsenale se ne risentirà.
Astenetevi dal parlargli del mio disgusto, acciò che il male non si renda peggiore.
Per fortuna, anche se a rilento, i lavori proseguirono ma il Pacini a Castellina, probabilmente, non ci lavorò mai più.
Vito De Meo